PENSIERI DI UN VECCHIO (Download)
“Mi piace sentirmi parlare. E una delle cose che mi divertono di piu.
Spesso sostengo lunghe conversazioni con me stesso e sono cosi intelligente
che a volte non capisco nemmeno una parola di quello che dico.”
Quando lessi per la prima volta questa affermazione, avevo dieci anni. La
trovai stupida.
Com’era possibile, mi chiedevo, non comprendere nemmeno i propri pensieri,
le proprie parole? Doveva essere come affacciarsi ad un profondo pozzo e
non vederne il fondo, solo che il pozzo era la propria mente.
Ora comprendo alla perfezione questa affermazione cosi incredibile, cosi
assurda per la mentalita di me stesso da bambino.
Il parlare da solo a volte aiuta, e mi chiedo se, un giorno, quello che
racconto a me stesso durante le ore di veglia, non potrebbe essere utile
a qualcun altro.
E allora penso di scrivere, invece di pensare. Prendo la penna, prendo il
foglio, lo liscio sul tavolo e poi inizio a vergare lettere appuntite con
quella che, rispetto alla celerita dei miei pensieri, e la lentezza d’un
bradipo.
Cosi m’innervosisco, getto la penna che, dopo un ampio volteggio, ricade
sul pavimento, offesa. Straccio il foglio, lo appallottolo e lo getto di
lato.
Non sono portato per la scrittura. Meglio continuare a parlare.
Il suono della mia voce e davvero adorabile, stentoreo, chiaro, duro. Non
come quello degli anziani rinchiusi in questo dannato caseggiato a tinte
spente.
La mia voce non s’e raggrinzita con l’eta, non e divenuta un flaccido mormorio,
una continua nenia soffocante. La mia voce e rimasta quella d’un uomo tutto
d’un pezzo. D’un uomo che sa cosa dire al momento giusto, che sa farsi ascoltare.
Cosi, spesso, mi ritrovo a parlare senza ascoltare nemmeno le parole stesse,
il senso del mio discorso. E’ solo il suono ad attrarmi, e solo il suono
della mia voce a dare senso all’articolata fiumana di pensieri che sgorga
dalle mie labbra. E’ il mio continuo monologo che mi da la forza di andare
avanti lungo le strade della vita, che mi rinvigorisce e mi impedisce di
sprofondare nell’incubo dell’abnegazione, del sacrificio, della vecchiaia,
dell’oblio.
Ogni tanto abbasso lo sguardo sulle mie mani e vedo la pelle raggrinzirsi,
giorno per giorno diventare piu pallida e debole. Cosi la tristezza mi attanaglia,
ma basta il suono della mia voce a ridestare il vigore giovanile, a portare
nell’aria l’odore della polvere da sparo e dei campi in fiore, entrambi
ricordi della mia adolescenza.
La caccia, l’inseguire una lepre, supino tra le erbe alte, controllando
d’essere controvento, sospirando e imprecando quando l’animale fuggiva colto
il minimo rumore.
Ricordo il mio adorato bracco come fosse ancora vivo e vegeto al mio fianco,
si chiamava Giuda, era una bestia magnifica, grossa e dal portamento fiero.
Vedo ancora, con gli occhi della mente, il suo manto ramato solcare il verde
smeraldo della vegetazione, vedo il suo corpo agile e scattante ricadere
con pesantezza sulla preda, gli occhi rilucere di una gioia omicida.
Ricordo le notti passate con il suo massiccio corpo a scaldarmi la schiena.
Ma a cosa serve ricordare, quando basta parlare al vento per essere felice?
Quando basta allineare parole senza apparente senso logico per trarre gioia
dalla musicalita delle parole in se, per captare il solido legame che va
a crearsi e che dona senso a qualunque discorso? E perché, allora, non dire
“Luna cane cavallo albero” per paura di essere ritenuti pazzi? Perché evitare
di condensare in queste quattro parole un significato cosi ampio d’andare
oltre la comprensione umana? Perché non farneticare, solo per il gusto di
farlo?
D’accordo. Sono un vecchio pazzo. Ma quanto e bello esserlo quando si ha
una voce cosi.